La nuova stagione – Silvia Ballestra

di Luca Brecciaroli


Sono usciti a distanza ravvicinatissima La nuova stagione di Silvia Ballestra (Bompiani) e La metà del cielo di Angelo Ferracuti (Mondadori – ne parliamo qui) e mi ero ripromesso di leggerli uno di seguito all’altro, cosa che ho fatto e che mi ha regalato due letture molto intelligenti, di ottima qualità e di spessore, che hanno come filo rosso comune la regione delle Marche, in particolare la parte più a sud, quella che molti definiscono scherzosamente le “Marche zozze”. Una regione con molti problemi, passati e recenti, provinciale e ristretta, ma che per molti versi ti àncora ai suoi luoghi. Così è per Angelo Ferracuti, che nelle sue pagine non risparmia critiche pesanti alla sua terra e soprattutto ai suoi conterranei e che pur vivendoci cerca continuamente di allontanarsene. Così è per Silvia Ballestra, emigrata a Milano ma sempre attenta alla sua terra e alle sue storie.

La nuova stagione è in tutto e per tutto marchecentrica, una storia ambientata e radicata proprio nell’area fermana e ascolana delle Marche, terra d’origine di Silvia Ballestra, identificata con un generico Valferonia che vuole rappresentare secondo l’autrice «le decine di Valferonie del Centro Italia, accomunate da un passato centenario di mezzadria, dal paesaggio modellato da quel tipo di organizzazione, dall’aver fatto parte per quasi un millennio dello Stato Pontificio», creando quel mix originale di “santità e paganesimo” tipico dell’area.

Quanto ci sia di autobiografico non è dato sapere, ma è evidente l’amore per un’età e una terra in gran parte perduta, o meglio “svenduta al progresso”. Amore evidentissimo specie nelle pagine iniziali e in altri momenti del romanzo nei quali l’autrice descrive le terre dei Monti Sibillini, ricche di bellezza e leggende, ora purtroppo devastate dal terremoto del 2016/2017.

La nuova stagione racconta le vicende di due sorelle, Nadia e Olga, e della loro madre Liliana, che tentano di vendere i loro terreni di famiglia, riuscendoci ma solo dopo innumerevoli traversie e disavventure.

Le vite delle due donne vengono ben raccontate attraverso la voce di un narratore esterno, vite tutto sommato abbastanza comuni nelle Marche e non: università a Macerata, un gruppo musicale, una parentesi londinese, matrimonio, figli e divorzio per Nadia; università a Urbino, lavoro in una nota azienda di cucine del pesarese, teatro, matrimonio, figli e divorzio per Olga. Le due sorelle si ritrovano quindi in una fase non entusiasmante delle loro vite, entrambe con un matrimonio fallito e poche prospettive di fronte, se non la necessità di vendere le terre che loro padre, imprenditore agricolo illuminato, aveva lavorato con abnegazione negli anni della loro gioventù. Peccato che la terra oggi, nelle Marche come altrove, abbia subìto una pesante svalutazione, figlia anche di dinamiche sociali e comunitarie, per cui venderla è tutt’altro che facile.

Centrale nel romanzo, in particolare, la descrizione, fatta con ironia e intelligenza, di come sia cambiata un’epoca in non molti anni. Da civiltà agricola la regione, e in particolare l’area al centro del racconto, è divenuta in men che non si dica patria della piccola industria (fiorente quella calzaturiera), con l’abbandono della terra per impiantare la “fabbrichetta”, entrata poi in difficoltà a causa delle note dinamiche della globalizzazione. Ma in tal modo un’intera civiltà è stata gettata via in breve tempo, creando la cosiddetta civiltà della “postmezzadria”. Così come sono state distrutte e spesso abbandonate, anche per via del terremoto, delle aree di enorme bellezza. E quindi da mezzadri molti si sono inventati coltivatori di palme, assai redditizie (paragonate a bancomat), spazzando via coltivazioni secolari di frutteti. Poi le palme si sono ammalate per un batterio… E non a caso alla fine, dopo decine di tentativi andati a vuoto, sarà una multinazionale alimentare ad acquistare per pochi euro i terreni delle due sorelle.

Naturalmente la oggi forse troppo idealizzata età rurale recava con sé anche numerosi punti oscuri, dato che «la società contadina non era solo idillio campestre, sapeva essere feroce ed era bestialmente patriarcale». Le donne erano totalmente relegate ai margini della società. Anche per questo l’autrice narra la storia del brutale omicidio di una donna che avvenne negli anni ’60 o ’70, un tramite con il quale approfondisce anche la violenza domestica, l’ignoranza, i ricatti, i maltrattamenti subiti dalle donne, la facilità con cui si finiva in manicomio: aspetti non rari né secondari in quei contesti. Poi arrivarono gli arricchimenti facili, e la nuova e moderna società capitalista sostituì in toto la precedente. E quindi il terremoto, che devasta il territorio ma anche i legami e le reti sociali, provocando ferite difficilmente sanabili.
Eppure, la propria storia, le proprie radici affondano in quei luoghi, ed è proprio questo amore incondizionato che fa ancor più sottolineare gli stupri subiti dai territori, permessi dall’avidità e dall’ignoranza.

Una satira caustica e l’ironia tagliente sono onnipresenti nel romanzo, in particolare nella descrizione dei conterranei e del loro “oscuro” dialetto, quasi una lingua a sé, così come della burocrazia e delle dinamiche della nuova agricoltura. Può sembrare strano l’accostamento, ma anche in questo caso la lezione leopardiana è pienamente raccolta e attualizzata. Centrale e descritto con ironia è anche il maschilismo, evidente nelle tante trattative intavolate dalle due sorelle per la vendita della terra, tutte fatte con uomini furbi, approfittatori, meschini, gretti: stupendo il passaggio che descrive la difficoltà di vendere con l’espressione «stallo marchigiano».

Dunque era questo, il diventare definitivamente adulte, se non vecchie, mi disse mia cugina una sera che eravamo andate a guardare il tramonto dal belvedere di Montedinove. Disperarsi per una lettera d’esproprio invece che per una lettera d’amore finito. Farsi battere il cuore per un pagamento andato a incasso invece che per la voce di quel tipo così affascinante. Piangere per colpa di uno sconosciuto geometra di Collesailcavolo invece che per la partenza di un fidanzato. Stare sveglie la notte per il terrore di aver sbagliato a mettere una firma su un pezzo di carta e non per quella telefonata dall’amato attesa per ore e mai arrivata.

La colonna sonora è legata in buona parte agli ascolti giovanili delle protagoniste (specie di Nadia e la sua rock band) e poi all’aneddoto di Johnny Appleseed, la cui storia è narrata in molte canzoni (qui si citano Joe Strummer, i NOFX e i Counting Crows). A un certo punto le due sorelle si recano a un concerto di Thom Yorke e Jonny Greenwood a Macerata: già, poiché il chitarrista dei Radiohead da qualche anno ha trasferito la sua residenza proprio nelle “Marche zozze”! Ed era proprio in quell’area quando si verificarono le scosse di terremoto, ragion per cui poi organizzò dei concerti di raccolta fondi.
Impossibile, infine, per me non cogliere il senso di questo romanzo nella splendida Country House dei Blur.

Editore: Bompiani

Ascolta la colonna sonora: https://open.spotify.com/playlist/2C1U25NASgqJxW3Gw42dX4?si=gdxlkpKaTRyS8wZM_qo6oQ

La colonna sonora de “La nuova stagione” di Silvia Ballestra
  1. Country house – Blur
  2. Strychnine – The Fuzztones
  3. She’s like heroin to me – The Gun Club
  4. Lost in the supermarket – The Clash
  5. Carmina Burana – Carl Orff
  6. Everything in its right place – Radiohead
  7. Johnny Appleseed – Joe Strummer & The Mescaleros
  8. Johnny Appleseed – NOFX
  9. Johnny Appleseed’s lament – Counting Crows
  10. Bella sei nada femmena – La Macina