Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio – Remo Rapino

di Luca Brecciaroli


Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio è un libro atipico, una sorta di autobiografia scritta nella forma di un flusso di coscienza impetuoso, prorompente. Atipico, oltre che nella forma, anche nella sintassi e nel linguaggio che ricalca la forma dialettale abruzzese, dell’area di Lanciano per la precisione. Un linguaggio estremamente scarno ma al tempo stesso ricchissimo, colorito, in alcuni passaggi anche difficile, volto a raccontare nell’unica maniera possibile una vita come quella di Liborio Bonfiglio, una vita estrema nella sua semplicità, un percorso vissuto lungo tutto il Novecento.

La storia è l’autobiografia, narrata in prima persona, di Liborio Bonfiglio, definito una “cocciamatte” (testa pazza), che racconta tutta la sua vita dalla nascita nel 1926 fino alla (quasi) morte nel 2010. Liborio ha origini umilissime, in una regione rurale e arretrata. Non conoscerà mai suo padre, emigrato verso la “Merica” e mai più tornato. Sua madre gli diceva che egli aveva «gli stessi occhi del padre» e questa somiglianza sarà per lui «come un tic, una fantasia che mi porto sempre appresso» e che non potrà tuttavia mai soddisfare. Liborio era molto bravo a scuola ma, a causa della sua povertà e della sopraggiunta morte prima del nonno e poi della madre, dovette interrompere ben presto la scuola per avviarsi al lavoro. Il suo maestro, figura bellissima del romanzo che egli ricorderà sempre con molto affetto, gli donò una copia del libro Cuore, che egli rievocherà spesso. L’adolescenza scorre lungo l’età del fascismo, fino alla guerra e allo sterminio che provocarono anche dalle sue parti. Molto vivida la descrizione dei rastrellamenti di tedeschi e fascisti e le stragi sulla popolazione inerme, fatti che segnano Liborio:

Che poi quando uno è giovane giovane è pure una mala morte a morirsi da giovani, che la morte quella ci sta da sempre e fa parte del gioco se uno sa giocare, ma la mala morte no, quella è come se uno ti ruba la vita, e la vita non la si può rubare a nessuno.

Dopo la guerra, chiamato a svolgere il servizio militare a Spilimbergo, Liborio dovette lasciare i suoi lavori presso il funaro (sgradito per la violenza che usava sui lavoratori) e il barbiere (lavoro che invece gradirà molto anche per l’amicizia con il barbiere) e, soprattutto, Teresa Giordani, la donna per la quale nutrirà amore per tutta la vita, amore derivante da un solo sguardo e un paio di fugaci e rapide conversazioni. La vita militare tutto sommato gli piace: ha da mangiare, qualcosa da fare e alcune amicizie, in particolare con Venturi Ermes di Bagnacavallo, con il quale esce spesso recandosi anche nei bordelli locali. Tornato a casa riprende il lavoro dal barbiere ma alla morte di questi è costretto ad andarsene. Sono gli anni del boom economico e si sposta a Milano per lavorare in fabbrica, dove rimane alcuni anni prima di doversi allontanare per alcuni segnali di follia causati dal lavoro («forse lì ha cominciato lo spappolamento della testa mia, senza che me ne accorgevo»); molte belle le descrizioni della vita in fabbrica, dell’alienazione e dell’isolamento. Qui Liborio si iscrive alla Fiom e simpatizza per il Partito comunista, prendendo parte anche ad alcune manifestazioni.

Si reca quindi a Bagnacavallo dall’amico Ermes, che però trova gravemente malato di sifilide a causa della sua vita dissoluta. Decide di rimanere con lui anche per avere un pasto e un tetto, poi inizia a lavorare nelle campagne. Si sposta dopo qualche anno a Bologna per lavorare ancora in fabbrica (Santa Rosa e Ducati), attratto anche dall’Università: cerca di assistere ad alcune lezioni ma il clima di occupazione e l’avvento degli anni di piombo lo costringono ad allontanarsi. Il clima politico è molto acceso anche in fabbrica, fino al grave incidente subìto da uno dei suoi amici e alla sua reazione violenta, che gli causa l’arresto.

Al processo viene condannato all’internamento nel manicomio di Imola:

Che poi lo spedale era pure provinciale, l’ho letto all’ingresso quando sono arrivato, e chi se l’aspettava per un povero cristo come me uno spedale provinciale, che voleva dire che era meglio di uno solo comunale pensavo io e me la credevo un poco, come se ero una specie di principe azzurro tra tutti quelli che li chiamavano fuori di cervello.

Al manicomio trascorre dieci anni, e saranno anni per lui belli: si trova bene a parte il suicidio di una giovane ragazza con cui era entrato in amicizia. Conquista anche il direttore della struttura, che capisce subito che Liborio è solo un pover’uomo, finito lì a causa delle sue umili origini, tanto che questi gli farà organizzare l’orto della struttura, che diverrà anche grazie a lui una struttura modello. Non vorrebbe mai andarsene da lì ma è costretto a farlo.

Torna quindi a casa, a 60 anni e 40 dopo esserne partito, dove ritrova ancora la sua abitazione e ben pochi cambiamenti, poiché sostanzialmente la provincia non muta mai nel corso del tempo. Qui sarà costretto a interpretare il ruolo del “matto del paese”, escluso e dileggiato, incapace di ricavarsi un altro ruolo nella società che pure è profondamente cambiata. Vivrà, e descriverà in maniera magistrale, anche gli altri grandi eventi della storia come la caduta del Muro di Berlino o l’11 settembre, fino alla sua morte avvenuta nel 2010.

La trama e gli eventi sono ancor più ricchi e curiosi, descritti in maniera magnifica, con un linguaggio colorito, evocativo, molto descrittivo e realistico. Il tutto rende questa lettura incredibilmente ricca e appassionante. Rapino diverte e commuove, ci si affeziona inevitabilmente a Liborio che ci guida attraverso tutto un secolo denso di cambiamenti: il fascismo, la guerra, il boom economico, le lotte sindacali e politiche, la riforma basagliana, fino ai giorni nostri.

Anche se può sembrare strano nel 2020, si avvertono fortissimi gli echi della poetica manzoniana e verghiana, la storia vista dagli occhi dei vinti, dei perdenti, degli emarginati, dei derisi: di quelli che oggi, in un’epoca confusa e smarrita, tendiamo a identificare come gli “altri”. Liborio ha fin dalla nascita i «segni neri», quelli degli esclusi dalla società.

Certe volte mi pareva che a quei tempi tristi i poveri si erano più incattiviti dei ricchi, che i ricchi non ti si cacano, ma i poveri tra di loro si odiano proprio, e io non riuscivo a capire se era meglio che mi odiavano o che non mi si cacavano per niente, che mica era una bella scelta da fare, come se a uno gli chiedevano se si voleva morire annegato al porto o sotto a un camion che portava le pietre alla cava della vreccia.

Vuoi per il tema trattato, vuoi per l’ambientazione, vuoi per il linguaggio (per molti versi “gaddiano”), questo libro alla fine ti entra dentro, ti travolge e ti accompagna a seguire con empatia la vita del protagonista, un personaggio solo in apparenza strampalato, ma in fondo con un enorme patrimonio di storia e di storie. In fin dei conti credo che l’aggettivo più consono a descrivere questo lavoro sia proprio atipico: un vero e proprio romanzo di altri tempi. E, a giudicare dall’accoglienza calorosissima con cui questo lavoro è stato accolto, sembra proprio che la scelta di seguire Liborio nel lungo viaggio della sua vita sia davvero appagante e, per alcuni versi, imprescindibile.
Il fatto poi che l’autore, Remo Rapino, insegnante di filosofia nei licei, abbia pubblicato solamente qualche poesia e qualche racconto prima di questo romanzo, che si potrebbe quindi considerare come il suo vero e proprio esordio letterario, rende l’operazione ancora più affascinante: si può pensare ciò che si vuole dei premi letterari, ma non si può ignorare il fatto che questo libro sia tra i finalisti del Premio Strega 2020.
Solo a mo’ di rafforzativo, bastino le parole di uno dei migliori giornalisti italiani, recentemente scomparso, come Gianni Mura, che giudica Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio il miglior libro di autore italiano letto nel 2019.

Nel libro sono presenti alcune suggestioni musicali, sostanzialmente riconducibili a due elementi come l’opera e le canzoni politiche. Le prime sono delle arie che Liborio cita spesso perché ascoltate suonate dalla banda nelle feste paesane: La Traviata, Rigoletto, La Bohème, Turandot, tutte arie celebri che egli ricorda suonate nelle feste pur senza mai essere entrato in un teatro o aver assistito a un concerto. Le seconde fanno parte della sua militanza, anche se spesso autonoma e anarchica, al partito comunista e al sindacato, che lo caratterizzerà per quasi tutta la vita, in particolare negli anni Sessanta e Settanta e durante la sua esperienza in fabbrica.

Editore: minimum fax

Ascolta la colonna sonora: playlist Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio – Remo Rapino

  1. La Traviata (Atto 1) “Libiamo ne’ lieti calici” – Luciano Pavarotti
  2. La Traviata (Atto 2) “Amami Alfredo” – Maria Callas
  3. Rigoletto (Atto 3) “La donna è mobile” – Luciano Pavarotti
  4. Rigoletto (Atto 3) “Bella figlia dell’amore” – Luciano Pavarotti, Adriana Lazzarini
  5. La Bohème (Atto 1) “Che gelida manina” – Luciano Pavarotti
  6. La Bohème (Atto 2) “Quando m’en vo” – Maria Callas, Antonino Votto
  7. Turandot (Atto 3) “Nessun dorma” – Luciano Pavarotti
  8. Bella ciao – Modena City Ramblers
  9. Bandiera rossa – Banda e coro di Salsomaggiore Terme
  10. L’Internazionale – Coro dell’Armata Rossa
  11. Canzone delle osterie di Fuori Porta – Francesco Guccini
  12. Nel blu dipinto di blu – Domenico Modugno