di Luca Brecciaroli
Dipinto di Marcella Barchiesi
Almarina, ultima opera di Valeria Parrella, è un romanzo breve, o un racconto lungo, pubblicato nel 2019: «solo» poco più di cento pagine, ma con un peso specifico enorme.
È la storia di Elisabetta, una professoressa di matematica, divenuta da poco vedova, che insegna nel noto carcere minorile napoletano situato nell’isola di Nisida. Qui, complice il momento di forte solitudine esistenziale della protagonista, avviene un incontro particolare, uno dei tanti avuti con l’umanità incredibile che popola il carcere minorile, un incontro che però le sconvolgerà la vita. Tra i suoi allievi arriva Almarina, un’adolescente originaria della Romania, vittima di violenze inenarrabili. Tra le due, o meglio, in particolare per Elisabetta, scatta qualcosa di forte, di irresistibile. Inizia sempre più ad avvicinarsi alla ragazza, la copre di attenzioni, riesce addirittura a portarla a casa con sé per le feste natalizie e, anche se il finale resta sospeso, probabilmente riuscirà a ottenerne l’affido definitivo.
Molto forte la storia, coinvolgente, altrettanto incisive la narrazione al tempo stesso poetica e realistica, il linguaggio dove ogni parola ha un suo peso, le sensazioni in particolare della protagonista.
Le descrizioni più potenti reputo siano quelle delle sensazioni del carcere, della fine della libertà, dell’ingresso in un mondo parallelo, con i suoi riti e i suoi ritmi, con l’interpretazione di una sorta di role play che richiede a tutti coloro che lo frequentano, anche se da esterni come l’insegnante. Tuttavia nella lettura si assiste a una specie di paradosso per cui per la protagonista la libertà finisce quasi per coincidere con la cattività del carcere, luogo dal quale trae energie per tirare avanti in un momento per lei molto difficile.
Tanti e tutti degni di nota i momenti dentro il carcere.
«I loro reati si dicono in due frasi, quelle che loro non possono pronunciare mai, manco con noi insegnanti. Sono racconti sussurrati in sala professori mentre si scalda il caffè sul fornellino elettrico. E quando la collega di lettere ce li dice, noi ascoltiamo e ci guardiamo senza pena né rabbia né disappunto né orrore né solidarietà né per le vittime né per i carnefici. Noi prendiamo questi faldoni e li riponiamo nel più remoto archivio della memoria e dopo nascondiamo la chiave. La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e dagli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato steso alle terrazze.»
Nel corso del racconto diviene evidente come si incontrino le due solitudini delle protagoniste: violenta e inconcepibile quella subita da Almarina, peraltro separata dal fratellino che è stato dato in affidamento; dettata dai casi della vita quella di Elisabetta, divenuta vedova all’improvviso, disperata e smarrita, che non è mai riuscita a concepire un figlio né a ottenerlo in adozione, figlio che incarnerà nella sventurata ragazza in fuga.
Una storia triste e disperata ma con una speranza che accende la disperazione, con un invito ad agire, a non lasciarsi andare, a superare il dolore dopo i gravi fatti che accadono nelle nostre vite.
Bellissima la «napoletanità» che impregna tutto il racconto: sensazioni, descrizioni, paesaggi, stati d’animo sono in gran parte legati a qual posto drammaticamente magico e meraviglioso che è la metropoli del meridione, un posto tanto fatato quanto violento, che unisce luoghi paradisiaci ad altri infernali, spesso contigui. D’altronde basti pensare a Nisida, isola di una bellezza mozzafiato che ospita un carcere minorile…
Almarina è anche un testo tanto poetico quanto politico: non a caso ci sono citazioni e similitudini dalle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, che vive una situazione per alcuni aspetti simile ai giovani detenuti del carcere di Nisida. Ma è ancor più politico nella sua volontà di lottare per andare avanti, per aiutare chi è in difficoltà e per creare cambiamenti rivoluzionari, pur se possono sembrare piccoli poiché incentrati sulla propria vita personale.
La musica di questo libro è un discorso molto particolare per cui mi permetto un’interpretazione molto personale. L’autrice cita una sola canzone nel libro, il Valzer numero 2 di Dmitri Shostakovich, una canzone che la riporta ai ricordi felici della vita con il marito scomparso, e che pertanto ha deciso di non ascoltare mai più. Ma in ogni pagina del libro non ho potuto fare a meno di «ascoltare» la musica di Liberato. Per chi non lo conoscesse, Liberato è una sorta di Elena Ferrante della nuova (e molto interessante) scena musicale napoletana e italiana in genere. Parte della sua fama è dovuta al fatto che la sua identità è sconosciuta e nelle sue rare apparizioni dal vivo (come quella oramai celebre del 9 maggio 2018 a Napoli) indossa un cappuccio che copre il volto. Napoletanissimo, tanto contemporaneo quanto ancorato alle radici della musica partenopea, Liberato canta perfettamente quella napoletanità che Valeria Parrella descrive benissimo nelle pagine del suo lavoro. Peraltro una delle tante «leggende» sorte attorno alla figura di Liberato vuole proprio che egli sia un ospite del carcere di Nisida! E, tanto per non farsi mancare nulla in quanto a misteri, Liberato ha da poco pubblicato una canzone insieme a 3D (al secolo Robert del Naja) dei Massive Attack, fondatore della celebre band inglese e di origini partenopee come lui. Per capirsi, proprio colui il quale molti credono si celi dietro Banksy… La canzone, tanto per non sbagliarsi, si intitola We come from Napoli!
Editore: Einaudi
Ascolta la colonna sonora: https://open.spotify.com/playlist/7eo2Uwcl6Ul0OZd20AGvdX?si=I5LMMNwwS0mUmdUEPuxaGA
- We come from Napoli – Liberato & 3D
- Nove maggio – Liberato
- Tu t’è scurdat’ ‘e me – Liberato
- Gaiola portafortuna – Liberato
- Me staje appennenn’ amò – Liberato
- Intostreet – Liberato
- Je te voglio bene assaje – Liberato
- Niente – Liberato
- Nisida – Edoardo Bennato
- Valzer numero 2 – Dmitri Shostakovich